27 dicembre. SAN GIL.

Doccia fredda refrigerante, letto in camerata confortevole, cibo ottimo; bisogna però ammettere che, dopo quattro giorni di questo menù, una doccia calda, un letto vero e un bel pranzetto al ristorante a San Gil non mi fanno rimpiangere troppo quel che ci siamo lasciati alle spalle.

Tuttavia quei giorni sulla Sierra Nevada sono stati magici.

Mentre in Italia stava per iniziare il tradizionale pranzo natalizio, al campo 3, ore sei di mattina, ci si avviava a compiere l’ultimo balzo per raggiungere la città perduta.

Milleduecento gradini di dimensioni irregolari, una scalinata in mezzo alla foresta, l’umidità a livelli inauditi, grondando sudore arriviamo felici alla meta agognata: Ciudad Perdida!
Una serie di terrazze circolari poste su livelli diversi, ogni terrazza ospitava una casa in legno, di cui ovviamente non sono rimaste tracce, il tempo e l’abbandono hanno cancellato quasi ogni segno della presenza della città che gli archeologi ritengono essere stata la capitale del popolo dei tayrona.

Case di abitazione o edifici destinati a cerimonie, ogni cosa è rimasta sommersa dalla vegetazione fino a che, a metà degli anni settanta del secolo scorso, cacciatori di reperti archeologici non hanno iniziato a trovarne e a farne razzia, prima che, diffusasi la notizia della scoperta della città, intervenisse il governo a prenderne possesso ponendo fine al saccheggio.

Nonostante oggi non siano visibili altro che le terrazze di pietra e i sentieri e le scale anch’essi in lastre di pietra che servivano per i collegamenti, il luogo emana un fascino misterioso: si può immaginare come, secoli addietro, piccoli indigeni si muovessero agili e apparentemente senza fatica su per le montagne, immersi in una natura dura ma al tempo stesso protettiva, dediti ad attività che, sempre a detta degli archeologi, li avevano portato a raggiungere un alto livello di civiltà e avanzate conoscenze tecnologiche.

Poi vennero gli spagnoli;  spinti sempre più a ridosso di montagne che qui arrivano oltre i cinque mila metri, i tayrona resistettero per decenni ai conquistadores ma dovettero abbandonare la città ritirandosi ancora più all’interno, finché se ne persero per sempre le tracce.

La nostra mattinata di Natale trascorre lassù, devi fare uno sforzo per ricordarti che è Natale, il berrettino rosso di Babbo Natale è l’unico collegamento con il resto del mondo, i telefonini tacciono, niente auguri da scambiare se non fra di noi, gli indigeni che vivono qui hanno altri pensieri per la testa, le loro giornate sono scandite dal sole, la divinità che li accompagna e li protegge ed alla quale sono devoti.

Le guide ci avevano prospettato l’ipotesi di un incontro con lo sciamano della tribù, l’autorità religiosa e sociale, ma non se ne fa nulla: lo sciamano ha bevuto, vizio che pare purtroppo assai diffuso, lo vediamo di sfuggita ciondolare e trascinarsi tra le capanne dove dimora con le due mogli e i quattordici figli, in quello stato non sarebbe in grado di raccontarci proprio nulla.

Raggiunta la metà, inizia il lungo ritorno, mezza giornata di cammino per arrivare al campo 2, la cena, la notte che viene presto, un riposo tranquillo e di nuovo in marcia, il giorno di Santo Stefano.

La natura intorno è bellissima e selvaggia, pochi spazi qua e là che gli indigeni hanno ricavato per le loro abitazioni e per coltivare quanto serve per vivere, lontani, dicono, i tempi della produzione della coca, il cielo si apre e si chiude sopra di noi, nuvoloni scuri e poi sole cocente, le energie ormai scarseggiano, i piedi non vedono l’ora di uscire dalle scarpe, gli zaini più pesanti che mai, gli indumenti indossati in  questi giorni fradici di sudore.

Dopo ore di sentieri si ritrovano tracce di modernità, le jeep ad attenderci, un ultimo pasto con i compagni di avventura, le foto finali con la birra per festeggiare, il congedo.

Santa Marta è il medesimo traffico, rumore, musica, gente, di quando l’ho lasciata, quattro giorni fa: la Ciudad Perdida è ormai lontana.

Lascia un commento