Mahahual. 4-5-6 gennaio.

Non sarei venuto fin quaggiù, in un angolo lontano dello Yucatán,  se,  alla voce “Mahahual”, Google non mi avesse dato come primo risultato il libro dall’omonimo titolo, scritto da Pino Cacucci.
Autore di altri libri in cui narra del Messico,  Paese del quale è assiduo frequentatore,  tra i quali quel “Puerto Escondido” da cui Gabriele Salvatores trasse un film con Diego Abatantuono, Cacucci mi ha spinto verso Mahahual ancor prima che aprissi le pagine del suo ultimo libro.

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Dopo tre giorni di Tulum,  afosa e scialba, arrivare qui e vedere i colori del mare a un passo dal malecon, il lungomare della cittadina,  è stato come aprire una porta da troppo tempo chiusa.
Questi sono i Caraibi che ho nei miei ricordi, Cuba, Guadalupa e Martinica,  Antigua, Dominica, sabbia, bianca e fine, ma non solo, quella c’era anche a Tulum,  palme protese fin sull’acqua, tra il mare e la strada nessun hotel, bar e ristoranti con i tavolini sulla spiaggia,  le amache tese tra le palme, su tutto un cielo azzurro percorso da nuvole e fregate, uccelli dalla coda biforcuta, elegantissimi  nel loro volo.

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Peccato che il sole latiti, per una  giornata intera si fa invano attendere, il mare mosso impedisce alle barche di uscire,  chissà se è questa stessa ragione a far sì che non attracchi in porto nessuna di quelle orrende navi da crociera che il mattino scaricano turisti assetati di sole, bagni e souvenir, che poi riprendono al tramonto, ignari persino del nome della località dove sono stati.
È una giornata,  ché poi il sole inonda dolce la spiaggia e le palme che sono sopravvissute all’ultimo,  devastante uragano diventano il mio riparo contro le ustioni da tropico che affliggono gli ingenui che si espongono senza precauzioni ai raggi solari.

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Ci sono parecchi italiani qui a Mahahual,  gestori di locali e alberghi in special modo, in uno di questi troviamo una stanza per dormire due notti, dopo quasi un mese di dimore spartane a dieci euro a notte in dormitorio la stanza denominata “agave” vale tutti i cinquanta euri che paghiamo senza battere ciglio.

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Quasi una galleria d’arte,  murales alle pareti bianche del cortile interno che racchiude una piccola piscina e palme e piante, i corridoi e gli spazi comuni hanno nomi di piante  e di artisti messicani – Frida Kalho, Tina Modotti, Octavio Paz – , mobili in legno dipinti con colori vivi, ti guardi intorno quando ci sei dentro anziché infilarti nella tua stanza come fai d’abitudine in un albergo “normale”.

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Mahahual, nella sua parte turistica,  è tranquilla, due strade parallele al mare, il malecon chiuso alle poche auto che circolano, anche le bancarelle dei souvenir sono rare, la sera non c’è gente in giro, sei davvero molto lontano da tutto quello che porta con sé il turismo di massa.
Purtroppo,  racconta Pino Cacucci, anche Mahahual non è immune dai problemi,  il maggiore dei quali ha a che fare con le nostre abitudini consumistiche: si chiama rifiuti.
Per un gioco di correnti, in questa zona confluiscono i rifiuti di mezzo mondo,  quella plastica che ha formato una immensa isola nell’Oceano Pacifico qui si riversa in massiccia quantità e i danni all’ecosistema rischiano di avere effetti micidiali negli anni a venire.
Eppure di plastica siamo ghiotti, le borse della spesa irrinunciabili,  toccherebbe a tutti noi rinunciare a quella che può sembrare una comodità ed invece è un’arma puntata contro noi stessi.
Come dice Cacucci,  dovremmo decidere di cambiare abitudini, “..per esempio sobbalzando come per la più tremenda delle bestemmie ogni volta che sentiamo dire “usa-e-getta”.

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Tulum. 1-2-3 gennaio 2015.

Saremmo voluti essere al mare per farci lì capodanno, invece ci arriviamo il primo giorno del 2015, giusto in tempo per sentirci dire che la prenotazione dei posti in dormitorio non vale nulla.

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Il posto per dormire comunque c’è,  ci facciamo tre notti a Tulum,  sul mar dei Caraibi, spiaggia di sabbia bianca e finissima,  quella che non ti da fastidio neanche se te la prendi in viso, una distesa di alghe, pare si chiamino sargassi, quasi una diga, e, davanti  agli alberghi,  omini indaffarati a trasportarle lontano dal bagnasciuga con carriole combattono una battaglia già persa contro la corrente che ne trascina a riva senza sosta.

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Giornate di vento forte,  nuvole che vanno e vengono,  onde alte e bandiera rossa, con la bicicletta messa a disposizione dall’ostello riesci a spostarti per la città,  almeno fino a che non fa buio, alle sei è meglio non avventurarsi per le strade se non vuoi rischiare di finire sotto una macchina.
Trovi anche qui il modo di passare un po’ di tempo tra le rovine dell’antico insediamento Maya di Tulum,  la cui particolarità sta nell’essere in riva al mare, cosa che spinge un gran numero di turisti che soggiornano nella zona a fargli una visita.

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Tulum non è distante da Cancún e da Playa del Carmen, spiagge famose sulle quali si riversano orde di turisti europei e nordamericani, quei gringos poco amati  dai messicani, che non mancano di sottolinearne l’arroganza.
C’è più gente alle modeste rovine di Tulum che alla imponente Chichen Itza,  quando ci avviciniamo per la prima volta all’ingresso è già metà mattina, in bici superiamo un folla di persone che vi si avviano, come ad uno stadio per la partita,  rimandiamo la visita al giorno successivo,  alle otto siamo i primi ad accedere al sito, poi, quando arriva la fiumana, siamo ormai fuori.
Non c’è molto da fare qui, vita da turista al mare, la sera cena al ristorante,  i prezzi economici incoraggiano a cercare di gustare le specialità yucateche,  non ci facciamo pregare, la cucina messicana è varia e di ottima qualità,  manca il vino, ma non la universale birra.
Alla fine riprendi la strada di casa,  torni all’ostello e trovi qualche compagno di avventura con cui chiudere con tequila e quattro chiacchiere sotto le stelle.

Valladolid. 30-31 dicembre.

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Se ne è andato anche il 2014,  un altro capodanno in viaggio, invano cercando quelle grandi feste popolari che sembrano esistere solamente nelle nostre città e nei telegiornali del primo gennaio.
Festa a Valladolid, una cittadina di circa quarantacinque mila abitanti, c’è stata, nulla di memorabile,  alle undici si chiude la strada che corre fra il palazzo del Comune e il parco che gli sta di fronte,si piazzano una ventina di tavolini con sedie, qualcuno gioca a carte, un dj mette musica da discoteca a tutto volume, nessuna bottiglia in circolazione (credo sia vietato bere alcolici per strada), si fa fatica ad aspettare la mezzanotte.
Poi il conto alla rovescia termina, partono i fuochi artificiali sparati dal tetto del palazzo comunale, tutti coloro naso all’insù e comincia la pioggia dei residui, pezzi di plastica affumicati che cascano sulla piccola folla indifferente,  prima che inizino le danze.
La musica in città continua fin verso l’alba, ma siamo ormai a letto,  il brindisi di capodanno offerto da due gentili ragazzi, di casa di fronte all’ostello, che hanno condiviso con noi il rum dell loro festa in famiglia.
Scopriamo poi che altri italiani in viaggio neppure hanno atteso la mezzanotte per andarsene a letto,  stanchi dalle intense giornate dedicate a visitare quelle che sono le attrattive dello Yucatán: le pietre vecchie di secoli dei siti Maya.
A Chichen Itza, la più conosciuta,  un edificio a forma di piramide, pare di essere ad un concerto rock in uno stadio.

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Un sacco di gente sull’ampio prato intorno, foto scattate da ogni lato, si ricerca l’ombra degli alberi a difendersi dal sole, l’umidità è altissima, Chichen Itza è superba, assai curata, persino troppo, come se i palazzi fossero stati appena costruiti, in realtà sono vecchi di oltre millecinquecento anni, abbandonati da mille e riportati alla luce da meno di un secolo.
Come dovunque, anche qui c’è lo stadio, dove si giocava la pelota, la guida racconta di cosa significava il gioco per i Maya, delle sue regole, di come le partite si concludessero in maniera cruenta.
Ci volevano ore e ore di gioco per infilare la palla di caucciù pesante tre chili nell’anello a sette metri di altezza, gesto che solo il capitano della squadra poteva compiere, con una mazza di legno, mentre gli altri sei componenti la formazione dovevano limitarsi a passare la palla.
Il campo principale di Chichen Itza misurava 170 metri di lunghezza e 15 di larghezza, lo praticavano esclusivamente i nobili, per i quali era un onore vincere ed essere sacrificati.
Già,  alla fine qui il capitano della squadra vincente veniva decapitato!

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I Maya poi subirono l’influenza dei toltechi,  un popolo proveniente dal nord, ben più sanguinario, dedito alla pratica dei sacrifici umani, e le partite di pelota presero ad avere una conclusione per più cruenta, le teste cadevano senza pietà,  vinti, prigionieri, perdevano e morivano.

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Ora i discendenti dei Maya ancora vivono e parlano la loro lingua, orgogliosi ma circoscritti in un’area ristretta, alle prese con civiltà invadenti e con il turismo che sommerge le coste di cemento e luci.

Merida. 28-29 dicembre

A bordo del bus di seconda classe ci sono più passeggeri che posti a sedere, al rientro a Merida da Uxmal, un altro sito archeologico – sono vicino alla decina – collezionato in questo fine d’anno affollatissimo in Yucatán.

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Fatichi a trovare posto per dormire, i siti di prenotazione online sono inaffidabili e ti ritrovi ad aver prenotato e confermato una struttura dove non ti aspettano – Despegar.com,  latino americano – , ma le vette più alte di inefficienza le tocca il famoso Booking.com.
Prenoti,  ricevi la mail di conferma,  sei tranquillo ormai, ma dopo  circa un’ora un’altra mail ti informa di aver provveduto ad una modifica – che saresti stato tu a richiedere – della tua prenotazione, con spostamento di due giorni in avanti delle date del soggiorno.
Semplicemente surreale.

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Alla fine il posto per dormire lo trovi, però pare che il mondo intero si sia ritrovato nella penisola dello Yucatán proprio in vista del capodanno.
Si incontrano italiani,  numerosi, coppie, gruppi, è bizzarro come si arrivi qui facendo percorsi mai uguali, c’è chi è passato per Monaco e Houston per sbarcare a Merida, chi invece da Genova è andato ad Amsterdam, Atlanta e Cancún,  alla fine tutti ci si ritrova a vedere le pietre dei siti prima di un relax sulle spiagge di sabbia bianca dei Caraibi.
A Merida piove ogni giorno,  solo di  sera per fortuna,  pioggia scrosciante, in attesa, le precedenti esperienze caraibiche si limitavano ad acquazzoni tanto violenti quanto brevi, qui piove per ore e  le strade diventano laghi d’acqua.

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Prima della pioggia che svuota le strade, intorno al mercato coperto c’è una infinità di gente, un flusso continuo sui marciapiedi dove stenti a passare in due, non tanto per  la larghezza limitata degli stessi quanto  per le esagerate dimensioni dei corpi messicani che vi si accalcano frenetici.
In mezzo a questa calca, macchine della Policia Municipal, una jeep dell’esercito con tre soldati armati come ad una guerra, code di acquirenti di petardi per capodanno in un negozio preso d’assalto,  su una piazza alberi dai quali uccelli neri sovrastano con il loro canto ogni altro rumore,  predicatori esaltati che invitano a riflettere su Cristo che arriva, a dieci metri dalla musica sparata a tutto volume dalle casse di una bancarella di cibarie e bevande.
La musica è una vera e propria mania, dai negozi e bancarelle è una colonna sonora che ti segue dovunque,  un frastuono assordante che ti perseguita con melodie da tagliarsi le vene, capita pure di sentire Toto Cutugno e il suo italiano vero, marchio del Belpaese nel mondo.
La pioggia è cessata quasi del tutto, nel cortile interno dell’ostello si sente il canto dei grilli, la piccola foresta anche oggi ha avuto la sua razione di acqua benefici, mentre noi viaggiatori ci auguriamo che il sole ci accompagni verso la fine del 2014.

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Yucatan. 26-27 dicembre.

Dal Pacifico all’Atlantico,  da Puerto Escondido a Campeche,  attraverso il Chiapas siamo nello Yucatan,  la penisola conosciuta per le spiagge di Cancún e per le piramidi maya, Chichen Itza il nome più conosciuto al mondo.

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Natale alle spalle, zuppa di verdure e petto di pollo alla piastra come menu natalizio tra un sito archeologico e l’altro; sotto il  cielo grigio, a bordo di un furgone lanciato a tutta velocità su strade che affondano come una lama nel cuore di una foresta impenetrabile,  di una lancia su un fiume gonfio di acqua fangosa che segna il confine con il Guatemala, alla ricerca delle vestigia di antiche civiltà perdute, è trascorso così un altro Natale lontano e un altro compleanno senza candeline da spegnere su una torta che, per contenerne tante quante sono le primavere, dovrebbe essere di dimensioni giganti.
L’atmosfera natalizia qui non si percepisce che in maniera vaga, o forse sono i nostri occhi a darci questa percezione, occhi abituati alle luci, agli addobbi, alle esagerazioni di casa nostra, qui non ritrovano che Babbi Natale che guidano improbabili renne sotto il sole del tropico,

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qualche luce intermittente che augura Feliz Navidad, ma la vita pare seguire il solito corso quotidiano,  con l’eccezione della sera della vigilia, quando le strade di Palenque si presentano semideserte,  il cenone della Navidad in famiglia a dettare legge, i ristoranti popolati di soli turisti e qualche botto sparuto a mezzanotte.

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Campeche si affaccia sul golfo del Messico, è nella lista dell’UNESCO per il suo centro storico fatto di vie lastricate in pietra,  case e palazzi in stile coloniale e colori pastello,  la solita cattedrale che non manca mai, le vecchie mura.
Un giro serale ce la mostra  illuminata di una luce vivida, i muri bianchi tinti come di giallo, davanti il parco con il chiosco centrale stile belle époque, il malecon poco distante si affaccia su un’acqua tanto nera da confondersi con un cielo altrettanto scuro, dove è finalmente tornata a vedersi la luna.
Un altro sito archeologico da visitare,  si chiama Edzná,  piramide tempio, area del gioco della pelota, che tutte le città hanno, come uno stadio dei tempi moderni.

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Simbolo della lotta tra opposti, il giorno e la notte, la vita e la morte, la pelota era giocata da due squadre i cui giocatori dovevano, secondo la versione più accreditata dagli studiosi, infilare una pesante palla di gomma in un anello di pietra posto in alto usando le anche o il petto.
Talvolta le partite si concludevano in maniera cruenta: i vinti venivano sacrificati e oltre alla partita perdevano anche la testa.
Logico che i giocatori ponessero il massimo impegno per vincere;  poi nei tempi moderni inventarono il football e nel XXI secolo non giocano più né per la vita né per la maglia né per la gloria, solo per il portafoglio.

Messico e nuvole. 23-24-25 Dicembre.

Lasciata San Cristobal de las Casas soleggiata ma ancora fresca dopo la solita notte fredda dei quasi duemila di altura, con un poco di amaro in bocca per non aver potuto dedicare più tempo a questa città che cominciava ad aprirsi ai miei occhi che vengono da lontano,  la sosta  ad Ocosingo permette  la visita  di Toniná, primo dei tanti siti Maya che incontreremo nella penisola dello Yucatan.

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La civiltà Maya occupò un arco temporale tra il 1500 a.C. e il 1000 d.C., si sviluppò in un’area compresa tra il Messico meridionale e il Guatemala, scomparendo infine per cause interne, ben prima che arrivassero gli invasori spagnoli a colonizzare l’America Latina.
Per secoli la foresta tropicale si impossessò dei palazzi,  delle piramidi, delle steli, dei templi, di tutto ciò che in secoli i Maya avevano costruito,  finché nel XIX secolo iniziò la riscoperta più o meno casuale di quei reperti che hanno permesso di ricostruire la storia della civiltà e riportare alla luce siti archeologici di grande interesse.

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Toniná,  Palenque,  Yaxchilán, Bonampak, tre giorni a salire e scendere scalini, a centinaia, gradini levigati,  stretti, alti, gli edifici puntano verso l’alto, a volte sfruttano le colline, altre volte sono eretti al centro di grandi piazze, quel che è stato riportato alla luce rappresenta solo una parte di quello che si conosce:  la foresta custodisce altre centinaia  di edifici che non ha alcuna intenzione di cedere all’uomo.

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Foresta tropicale, il caos organizzato, alberi che si aggrappano l’uno all’altro,  un groviglio inestricabile,  liane,  scimmie urlatrici che senti ma non vedi, in mezzo visitatori che si aggirano famelici, macchine fotografiche, cellulari,  tablet a catturare immagini che in questi giorni non saranno all’altezza delle aspettative.
Il tempo è inclemente,  nuvole e pioggia spadroneggiano,  sotto il cielo plumbeo anche le pietre delle piramidi e dei palazzi appaiono grigie e tristi.

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Quindi tocca riprendere dallo zaino giacca a vento e pile già riposti sul fondo, dopo San Cristobal,  confidando nel bel tempo che, finita da tempo la stagione delle piogge,  ti aspettavi di incontrare fino alla fine del viaggio.
Intanto quasi non ti rendi conto che è Natale, intorno hai solo turisti,  i tour continuano a portare gente da un sito all’altro,  le bancarelle dell’artigianato continuano a cercare qualcuno che compri, ti accorgi che qualcuno fa festa quando non puoi lasciare la tua robaccia sudicia alla lavanderia,  che è chiusa il giorno di Natale.
Stanno finendo calzini e mutande, se non finiscono le feste toccherà fare il bucato…

Dal Chiapas.

Al fondo del Messico,  dove inizia il Centro America,  ecco il Chiapas,  divenuto famoso nel mondo quando il 1° gennaio del 1994 uomini in armi uscirono dalla Selva Lacandona ed occuparono gli edifici del potere della capitale dello Stato,  San Cristobal de las Casas,  un atto rivoluzionario pacifico per chiedere maggiori diritti per i popoli indigeni,  emarginati in questa periferia del Messico.
Era L’EZLN, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale,  guidato dal subComandante Marcos, l’uomo nascosto dal passamontagna nero, immortalato nelle istantanee con la pipa in bocca e il fucile al fianco, assurto a simbolo rivoluzionario al pari del Che, ma di cui non si è mai conosciuta l’identità.
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L’occupazione non ebbe lunga durata, dalla capitale non tollerarono l’insurrezione e spedirono l’esercito a riportare l’ordine costituito,  con una feroce repressione che si tradusse in atti di violenza contro le comunità indigene dalle quali traeva uomini e sostegno l’EZLN, senza tuttavia riuscire a spegnerne la fiamma che tuttora vive nelle aree più interne del Chiapas.
Comunità autonome con strutture parallele a quelle ufficiali sono state costituite in varie località che si perdono nella selva, oggi una di queste ricorda l’uccisione di quarantacinque campesinos, assassinati nel 1997 da forze paramilitari appoggiate dall’esercito.
Ce ne parla Fabio, un ragazzo romano ormai trapiantato qui, impegnato in gruppi che svolgono attività con le comunità locali, di professione pizzaiolo in un pittoresco ristorante nel centro di San Cristobal de las Casas,  un cortile interno con negozi di artigianato locale e una libreria ai lati, la causa zapatista come sfondo di un’ottima   cucina che abbina piatti chiapanechi alla pizza margherita di Fabio, in un trionfo di salse piccanti che, a tradimento,  ti lasciano spesso con labbra e bocca bruciate.
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Nel Chiapas ci vieni per la natura,  il canyon del Sumidero con pareti alte fino a mille metri da cui si lanciarono quindicimila indigeni pur di non cadere nelle mani degli invasori spagnoli, pareti sulle quali riescono a vivere piante e cactus, che escono dalla roccia; cascate e laghetti in mezzo alla foresta sulle montagne aldilà delle quali è Guatemala,  ma le escursioni organizzate dalle agenzie cui non puoi fare a meno di rivolgerti ti danno una minima visione della regione.
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Avresti bisogno di passarci qui ben più tempo dei tre-quattro giorni da turista, quaggiù c’è una realtà che a San Cristobal puoi solo intuire, dietro i volti delle donne che vendono maglie,  borse, camicie,  mentre allattano bambini dai capelli neri neri, nei mercati coloratissimi di cui la città pullula, davanti alle altrettanto diffuse chiese, qui assai spartane, prive dell’oro che caratterizza cattedrali erette dai conquistatori a gloria di un dio dal quale le popolazioni locali si sentono dimenticate.
È già ora di ripartire, domani la strada per Palenque è lastricata di “tope”, i famigerati dossi riduttori di velocità, dicono ce ne siano circa quattrocento in circa trecento chilometri,  ma qui non riducono, fanno letteralmente fermare il veicolo, con l’effetto perverso di indurre gli automobilisti a pigiare sull’acceleratore nei tratti intermedi.
Le luci dell’albero di Natale di San Cristobal sono accese, fa fresco, pattinatori chiapanechi affollano la incredibile pista di pattinaggio ai Tropici: miracoli della globalizzazione.

Puerto Escondido. 17-18-19 dicembre.

Puerto Escondido evoca un luogo esotico, lontano, fatto di spiagge e palme, rifugio di avventurieri, nonché titolo di un film che ebbe un notevole successo all’inizio degli anni novanta.

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Puerto Escondido è realmente lontana : ci arrivi da Oaxaca, la capitale dello Stato omonimo, con un interminabile viaggio in bus di sette ore per coprire una distanza di circa duecento sessanta chilometri, attraverso montagne che, impietose, si susseguono con salite e discese che mettono a dura prova la resistenza dei passeggeri di un pulmino, scomodo e caldo, che sembra non arrivare mai a destinazione.
La parte finale del percorso scorre fra una vegetazione tropicale che fa dimenticare la strada monotona che hai visto passare dal finestrino da quando sei partito da Città del Messico, fiori gialli e rossi,  piccoli villaggi che strappano pezzi di terra alla foresta, poi sei a Puerto Escondido.

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Caldo afoso, la ricerca di un hostel è complicata dalla latitanza di un ufficio del turismo,  al punto informazioni sono gentili e disponibili,  ma non troppo efficienti,  tuttavia la ricettività di questa cittadina è tale che non ci vuole molto a trovare un tetto per due notti.
A Puerto Escondido non c’è da visitare,  solamente da godere della natura,  le acque dell’Oceano Pacifico accolgono tanto i surfisti quanto i bagnanti, basta fare attenzione a non finire nella  spiaggia sbagliata,  perché potresti rischiare di essere trascinato al largo dalla risacca e faticare a tornare a riva.

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Nelle acque di fronte alla cittadina delfini e tartarughe marine si mostrano ai turisti che effettuano escursioni in barca,  Alice nuota in mezzo al branco di delfini che compiono salti, capriole,  evoluzioni, imprevedibili nelle loro mosse tanto da  non permettere di scattare foto, ma le immagini di centinaia di questi animali che ti nuotano al fianco per oltre un’ora sono da immagazzinare in un angolo della memoria.
Le tartarughe, dal canto loro, paiono delle boe di segnalazione, di tanto in tanto vedi un uccello posato sul dorso di una di esse,  appena affiorante tra le onde alle  quali la tartaruga si abbandona senza opposizione.

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Due giorni da turisti da spiaggia, nuoto e sole sono sufficienti,  il Chiapas aspetta: tredici ore di bus notturno e saremo a casa degli zapatisti, San Cristobal de las Casas.

OAXACA, un altro Messico. 15-16 dicembre.

Alla fine di un lungo viaggio durato sette ore, il bus ci scarica a Oaxaca, capitale dell’omonimo Stato, circa 1500 metri di altitudine.
È immediata la sensazione di essere calati in un’altra realtà rispetto alla Città del Messico come appare a chi viene da lontano e ci si sofferma  pochi giorni.
Lá una megalopoli immane, una vera città,  traffico veloce di macchine potenti, nuove e lucide, masse di persone che si muovono di fretta, lustrascarpe a lucidare le scarpe della gente bene e mendicanti a chiedere monete, negozi di lusso e grattacieli, contrasti.

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Qui c’è una impressione di omogeneità e coesione sociale, un livellamento verso il basso che attenua i contrasti,  rendendo Oaxaca simpatica fin da subito.
Il centro, lo Zòcalo,  è una sequenza di banchetti dove si vende (forse è meglio dire che si prova a vendere…) mercanzia senza pretese, sui marciapiedi, alle loro spalle, piccole tende da campeggio fanno pensare che esse siano le dimore temporanee di ambulanti scesi in città forse per il periodo delle feste.

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Un antipasto di cavallette fritte, tamales di pollo – pasta di mais ripiena, avvolta in foglie di pannocchie di granoturco – con mole negro, una salsa non troppo piccante tipica di questa regione, una cena povera di ingredienti ma ricca di sapore,  consumata nell’area del mercato adibita a ristorazione (non si potrebbero definire ristoranti classici), seduti su panche in legno, in mezzo alla gente del posto, senza tante formalità, ci costa ben nove euro in due.
Lungo la strada abbiamo avuto un assaggio delle manifestazioni che stanno attraversando il Paese per chiedere giustizia per i 43 studenti scomparsi da quasi tre mesi, dopo essere stati rapiti con la conclamata complicità delle autorità, dalle quali, da allora, il Messico invano reclama una verità che per il potere è inconfessabile.

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Studenti a bloccare un casello autostradale,  tre ragazze che, dopo essersi messe in mezzo alla strada, pacificamente ci hanno lasciati proseguire senza alcun danno con solo pochi minuti di ritardo.

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Qui in Oaxaca la coscienza sociale pare molto avanzata, nel centro della città abbiamo incrociato una protesta di donne contro la violenza subita che lanciavano cuscini e oggetti di stoffa contro un edificio evidentemente coinvolto negli episodi di violenza, grandi lenzuola bianche invitano con slogan coloriti e  dotte citazioni alla riflessione  sull’ingiustizia di cui sono vittime gli abitanti di queste regioni del Messico,  Oaxaca e Chiapas in particolare modo.
Persone scomparse, sindacalisti campesinos assassinati vengono ricordati su manifesti affissi un po’ dappertutto,  la piazza centrale, lo Zòcalo,  ne è ampiamente tappezzata così come teloni davanti alla facciata dell’inaccessibile palazzo del governo.

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Oaxaca è comunque allegra, la gente sciama per vie e piazze, mercati artigianali propongono una quantità enorme di merce, tra i banchi allineati i  passanti dispongono a malapena  dello spazio per passare,

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i volti di uomini e donne paiono bruciati dal sole che scalda in un cielo finalmente azzurro,  dopo la foschia da inquinamento di Città del Messico.

14 Dicembre. Chiese al posto dei templi.

Il sole è ormai tramontato, l’ultimo chiarore prima che cali la sera sull’altopiano che va da S.Miguel de Allende a Città del Messico fa da sfondo all’autobus che corre verso la capitale.

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Dopo aver lasciato di mattina presto Guanajuato e le sue luci, ancora immersa nella quiete domenicale, la giornata è trascorsa nella città che porta il nome di Miguel Allende, che è stato definito “il primo turbatore della quiete” del Messico colonizzato dagli spagnoli.
Erano passati quasi due secoli da quando le truppe guidate da Hernan Cortès diedero inizio alla Conquista e alla distruzione delle civiltà che esistevano nell’intera America Latina, uccidendo e depredando in nome della Corona di Spagna e della superiore civiltà cattolica.
Nel nome di essa vennero erette basiliche al posto di templi maya o Aztechi,  recuperando le pietre con cui erano stati costruiti e cancellando il più possibile le tracce del passato.

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Per questa ragione, in questi primi giorni di Messico non visto che chiese, con la sola eccezione di Teotihuacan,  capitale dell’impero azteco,  sito che conserva resti significativi, in particolare due piramidi dedicate al Sole e alla Luna.
Anche Guanajuato e S. Miguel de Allende sono disseminate di chiese, i santi cattolici sono ben rappresentati, Francesco, Domenico, Rocco, Giovanni, le Madonne altrettanto, dalla Vergine di Guadalupe all’Immacolata Concezione e c’è pure una Belen.   
Stamattina alle dieci,  quando sono arrivato, la città era semi deserta, poi col passare delle ore il centro ha preso un’altra dimensione, famiglie con bambini,  giovani, turisti – abbastanza scarsi, comunque -, anziani seduti sulle panchine del giardino centrale di fronte alla basilica dove le messe si succedono senza interruzione,  il mercato coperto affollato di commensali ai tavoli dove per quattro euro scarsi ti mangi un piatto di carne di maiale con riso e fagioli e ti bevi una birra prima di lasciare la bellezza di dieci pesos, sessanta centesimi di euro,  per un enorme bicchiere di frutta fresca tagliata a dadini.

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I prezzi per vivere,  in queste città, sono bassi per noi, ma per la gente del posto la vita non è semplice.
Il cambiamento degli stili di vita incide sul lavoro, una anziana signora dall’aspetto dignitoso e dallo spagnolo più comprensibile che abbia ascoltato in Messico,  con la quale scambio due chiacchiere su una panchina del centro, mi confessa con  amarezza le sue difficoltà quotidiane.
Le lavanderie hanno reso superato il lavoro di lavandaia che lei svolgeva, lo stato sociale pare non essere così efficiente da passare una pensione a tutti i cittadini anziani o indigenti, la crisi riduce le risorse anche a quei turisti statunitensi che le davano lavoro in casa quando trascorrevano mesi al caldo del Messico; gli occhi le si inumidiscono nel raccontare come fatichi a mangiare, si illumina quando le allungo un biglietto da cento pesos, mi stringe la mano, mi augura tante belle cose e mi invita a tornare a San Miguel de Allende.
Il bus non ha collegamento internet,  la solita pianificazione delle tappe successive approfittando delle ore di trasferimento stavolta non è possibile, torno all’ostello di Città del Messico già conosciuto,  ci trovo Alice, da Verucchio, Rimini, da domani viaggeremo insieme, poi arriverà Giuseppe,  da Castellana Grotte, Bari, forse Luigi, da Signa, Firenze: insomma,  la breve solitudine è già finita.