Non sarei venuto fin quaggiù, in un angolo lontano dello Yucatán, se, alla voce “Mahahual”, Google non mi avesse dato come primo risultato il libro dall’omonimo titolo, scritto da Pino Cacucci.
Autore di altri libri in cui narra del Messico, Paese del quale è assiduo frequentatore, tra i quali quel “Puerto Escondido” da cui Gabriele Salvatores trasse un film con Diego Abatantuono, Cacucci mi ha spinto verso Mahahual ancor prima che aprissi le pagine del suo ultimo libro.
Dopo tre giorni di Tulum, afosa e scialba, arrivare qui e vedere i colori del mare a un passo dal malecon, il lungomare della cittadina, è stato come aprire una porta da troppo tempo chiusa.
Questi sono i Caraibi che ho nei miei ricordi, Cuba, Guadalupa e Martinica, Antigua, Dominica, sabbia, bianca e fine, ma non solo, quella c’era anche a Tulum, palme protese fin sull’acqua, tra il mare e la strada nessun hotel, bar e ristoranti con i tavolini sulla spiaggia, le amache tese tra le palme, su tutto un cielo azzurro percorso da nuvole e fregate, uccelli dalla coda biforcuta, elegantissimi nel loro volo.
Peccato che il sole latiti, per una giornata intera si fa invano attendere, il mare mosso impedisce alle barche di uscire, chissà se è questa stessa ragione a far sì che non attracchi in porto nessuna di quelle orrende navi da crociera che il mattino scaricano turisti assetati di sole, bagni e souvenir, che poi riprendono al tramonto, ignari persino del nome della località dove sono stati.
È una giornata, ché poi il sole inonda dolce la spiaggia e le palme che sono sopravvissute all’ultimo, devastante uragano diventano il mio riparo contro le ustioni da tropico che affliggono gli ingenui che si espongono senza precauzioni ai raggi solari.
Ci sono parecchi italiani qui a Mahahual, gestori di locali e alberghi in special modo, in uno di questi troviamo una stanza per dormire due notti, dopo quasi un mese di dimore spartane a dieci euro a notte in dormitorio la stanza denominata “agave” vale tutti i cinquanta euri che paghiamo senza battere ciglio.
Quasi una galleria d’arte, murales alle pareti bianche del cortile interno che racchiude una piccola piscina e palme e piante, i corridoi e gli spazi comuni hanno nomi di piante e di artisti messicani – Frida Kalho, Tina Modotti, Octavio Paz – , mobili in legno dipinti con colori vivi, ti guardi intorno quando ci sei dentro anziché infilarti nella tua stanza come fai d’abitudine in un albergo “normale”.
Mahahual, nella sua parte turistica, è tranquilla, due strade parallele al mare, il malecon chiuso alle poche auto che circolano, anche le bancarelle dei souvenir sono rare, la sera non c’è gente in giro, sei davvero molto lontano da tutto quello che porta con sé il turismo di massa.
Purtroppo, racconta Pino Cacucci, anche Mahahual non è immune dai problemi, il maggiore dei quali ha a che fare con le nostre abitudini consumistiche: si chiama rifiuti.
Per un gioco di correnti, in questa zona confluiscono i rifiuti di mezzo mondo, quella plastica che ha formato una immensa isola nell’Oceano Pacifico qui si riversa in massiccia quantità e i danni all’ecosistema rischiano di avere effetti micidiali negli anni a venire.
Eppure di plastica siamo ghiotti, le borse della spesa irrinunciabili, toccherebbe a tutti noi rinunciare a quella che può sembrare una comodità ed invece è un’arma puntata contro noi stessi.
Come dice Cacucci, dovremmo decidere di cambiare abitudini, “..per esempio sobbalzando come per la più tremenda delle bestemmie ogni volta che sentiamo dire “usa-e-getta”.